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Giorni di scuola
Dopo parecchi anni di insegnamento, molto tempo fa, mi sono trovata
un bambino sinto in classe: non nomade, non straniero, semplicemente sinto.
E mi si è aperto un mondo, perché lui aveva parametri spaziali, temporali
e culturali completamente diversi dai miei e da quelli dei bambini con cui,
pur nella loro naturale eterogeneità, avevo avuto a che fare fino ad allora.
Ecco quindi di nuovo una sfida che mi ha fatto capire la mia inadeguatezza
e la relatività del mio modo di leggere la realtà. Ho sentito il bisogno di
approfondire e di «allargare» il mio fare scuola, spalancandolo ai mondi
che stavano lentamente entrando anche nelle classi trentine. Da allora mi
occupo di intercultura e di promozione del successo formativo degli allievi
di madrelingua non italiana. L’ho fatto inizialmente in prima linea, come
insegnante di classi multilingui e multiculturali, poi come insegnante su
progetto, occupandomi specificamente dei bambini e dei ragazzi di molteplici
provenienze inseriti in alcune scuole primarie e secondarie di primo grado,
infine come docente distaccata dall’insegnamento per offrire consulenza e
occasioni formative agli insegnanti e ai dirigenti della scuola trentina che
sempre più, come in molte altre regioni italiane, sta vivendo questa nuova
trasformazione.
Negli anni in cui sono stata «insegnante su progetto per l’integrazione
scolastica degli allievi di madrelingua non italiana» ho lavorato a scuola ma
anche, moltissimo, fuori dalla scuola, realizzando sinergie operative con
servizi, enti e istituzioni del territorio nella convinzione che non sia assolu-
tamente sufficiente favorire l’inserimento e l’integrazione dei minori stranieri
a scuola se non si lavora parallelamente per e con la loro costellazione socio-
familiare, soprattutto per risolvere le problematiche (situazione abitativa,
precarietà lavorativa dei genitori, isolamento sociale, ecc.) che ostacolano
la promozione del percorso personale e del successo formativo e rendono
evidente che l’intervento esclusivamente scolastico è assai riduttivo e illusorio.
Ho vissuto in prima persona la necessità di praticare in classe, con com-
petenza, la diversità perché ho visto negli anni l’aumento dell’eterogeneità: i
bambini e i ragazzi non sonomai stati così diversi l’uno dall’altro come quelli
di oggi, al di là della presenza degli allievi di madrelingua non italiana. Ho
sentito la necessità di ricorrere a un repertorio didattico variato, variabile e
ricco, differenziando proposte e materiali e praticando metodologie attive
e cooperative, perché un modo di fare scuola prevalentemente verbale e
basato sulla lezione frontale non regge più da molto tempo.
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