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Alla ricerca di una ragion d’essere per le ICT nella scuola
lo stesso e-learning, o altre forme di attività comunicativa/collaborativa online, possono
rientrare in questa tipologia: se un seminario collaborativo a distanza si può realizzare con
lo stesso risultato in termini formativi che in presenza — come oggi può accadere con un
sistema di videoconferenza, o semplicemente con Skype — si può facilmente convenire
che la soluzione e-learning è preferibile in virtù dei vantaggi che essa consente su altri
versanti (risparmio di tempo, costi, ecc.).
Sul piano metodologico si deve tener conto che i valori che emergono dalle meta-
analisi precedentemente citate ci dicono cosa accade nella grande maggioranza dei casi:
sono cioè valori che esprimono la tendenza dominante. Ma il compito della ricerca e
dell’innovazione è proprio di andare a cercare quei casi che si allontanano dalla norma,
frugando dietro le quinte delle medie, cercando dove le tecnologie hanno trovato felici
forme di integrazione nel contesto. Lo stesso Hattie (2009) segnala che risultati più
positivi sono da cercare in contesti molto interattivi, in cui si dà risalto al feed-back,
all’apprendimento tra pari, al controllo dell’apprendimento da parte dello studente, in cui
può essere conveniente fornire opportunità molteplici per apprendere, in cui comunque
gli insegnanti abbiano ricevuto adeguata formazione.
Ci sono poi i casi che, per propria natura, non possono essere ricondotti a una logica
comparativa, come quelli relativi ai bisogni speciali: si pensi in particolare ai deficit sen-
soriali e motori dove l’impiego delle tecnologie può essere di assoluta priorità, in quanto
può rappresentare il fattore abilitante stesso all’apprendimento o comunque può offrire
un significativo valore aggiunto sul piano dell’indipendenza, dell’inserimento lavorativo
e della partecipazione sociale (Burgstahler, 2003; Martin, 2005).
Ritornando sul controverso argomento degli «effetti» delle tecnologie sulla mente
o, per meglio dire, delle relazioni che si possono generare tra mente e medium, vanno
aggiunte alcune precisazioni. Se è pur vero che l’intera problematica va vista con pru-
denza — e che decisamente da respingere è la sua versione banalizzata «più tecnologia/
più multimedialità = più qualità cognitiva/più apprendimento» —, è anche vero che
interazioni e dinamiche tra la mente e il medium si vengono a generare con esiti mul-
tiformi e con inclinazioni per lo più volte verso soluzioni limitative, ma in qualche
caso anche di arricchimento e potenziamento dei processi cognitivi (Calvani, 2009).
Tra le prime è facile richiamare il fenomeno della estroflessione cognitiva, insito nella
natura stessa della tecnologia (Longo, 1998), cioè il fatto per cui la mente tende in
genere ad appoggiarsi allo strumento, delegando ad esso la sua funzione interna; è quel
fenomeno che già notava Platone, prevedendo che la scrittura avrebbe indebolito la
memoria e che ogni maestro intuitivamente riconosce evitando che i bambini usino
le macchinette calcolatrici prima che abbiano interiorizzato il calcolo mentale. Tra le
seconde va considerata la possibilità che la tecnologia possa anche agire da amplificatore
cognitivo
(mind tool)
, creando con la mente una sorta di «partenariato intellettuale», un
joint system,
come molti autori a più riprese hanno sottolineato (Papert, 1980; Salomon,
Perkins e Globerson, 1991; Bolter, 1993; Jonassen e Carr, 2000; Jonassen, 2006); ciò
consentirebbe alla mente di muoversi più agilmente all’interno della «zona di sviluppo
prossimale» (Vygotsky, 1978) e coadiuverebbe il processo di cambiamento concettuale