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Psicologia dell’educazione
Vol. 5, n. 1, marzo 2011
atto riduce il logorio delle attività, sopperisce a eventuali debolezze in quanto a capacità
di attribuzione interna e ricorda allo studente che è lui stesso a esercitare controllo sul
proprio successo. Spesso, purtroppo, sebbene i ragazzi conoscano e sappiano di fatto
mettere in atto strategie di autoregolazione, tendono a non farlo se non esplicitamente
invitati in tal senso, così come tornano a usare strategie meno efficaci o a non prestare
attenzione al loro operato quando gli interventi cessano (Winne, 1995). Spetta al docente
sia accertarsi che gli alunni o i bambini non si perdano nel fare, dimenticando gli obiettivi
del loro agire, sia provvedere affinché all’immersione esperienziale segua un momento di
ricostruzione e sistematizzazione dei vissuti e degli esiti. Lo sforzo riflessivo può essere
diretto anche al metodo di lavoro per una valutazione critica del modo di procedere che
aiuti a focalizzare strategie e decisioni più o meno funzionali agli obiettivi, alle condizioni
di lavoro e all’ambito disciplinare di riferimento.
Infine, vanno sostenuti la flessibilità e un approccio di lavoro multiprospettico che
non permetta ai giovani esploratori di accontentarsi dei primi risultati o di quelli più
superficiali, ma li sproni a mettere in discussione sia se stessi sia il proprio lavoro.
La capacità di controllare e regolare il proprio apprendimento è profondamente in-
fluenzata dalla presenza di feedback interni (prodotti dall’automonitoraggio) ed esterni
(forniti dal docente o dagli eventi stessi;Winne, 1997). Per questo, tutti gli interventi sopra
descritti possono essere pianificati a priori prevedendo nelle diverse fasi di lavoro spazi e
occasioni di riflessione consoni che potranno essere gestiti più o meno autonomamente
dagli studenti fornendo così feedback di automonitoraggio. Oppure, possono essere assolti
in una sorta di monitoraggio esterno nel corso dei lavori che fornisca mirati feedback
strategici, metacognitivi, emotivi, informativi, ecc. In questo secondo caso, bisogna aver
sempre cura di non interferire eccessivamente e di non scordare che l’obiettivo primario
è quello di tutelare l’autonomia degli studenti e di valorizzare le loro istanze e le loro
decisioni (che devono però essere motivate e argomentate). In questo senso, è richiesta al
docente una non indifferente capacità di decentramento cognitivo: deve cioè prescindere
dai propri schemi abituali e, a parità di correttezza, provare a vedere le cose dal punto
di vista degli studenti (e quindi della loro età, inesperienza, creatività, ecc.) sia sul piano
concettuale (impostazione del discorso, collegamenti tra i temi) sia su quellometodologico
e formale (organizzazione del lavoro, scelte strategiche, formalizzazione degli esiti, ecc.).
Fino a questo punto abbiamo preso in considerazione le forme attraverso le quali può
realizzarsi la scoperta, postulando sempre un ruolo, seppur minimo, per la figura adulta
di orientamento. La scoperta può realizzarsi tuttavia anche in modo autonomo. Un detto
popolare sostiene che le grandi scoperte si fanno per sbaglio. La storia della scienza e quella
delle arti sono ricche di aneddoti biografici sui percorsi tortuosi e accidentali di molte
grandi scoperte e, senz’altro, può darsi il caso di situazioni nelle quali la libera esplorazione,
manipolazione o sperimentazione portino bambini o ragazzi a cogliere inaspettatamente
aspetti o rapporti tra gli oggetti dai quali scaturiscono intuizioni illuminanti; tuttavia,
soprattutto nel contesto scolastico, è molto più frequente il caso di un apprendimento
intenzionale e, in qualche misura, pianificato. Quali caratteristiche, in termini di abilità,
processi o prerequisiti sostengono in questi casi lo «scopritore» autonomo?
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